Basta leggere le sue memorie (Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, Il governo di famiglia in Toscana, Sansoni Editore, Firenze, 1987, a cura di Franz Pesendorfer) per capire quale fosse il suo attaccamento alla “provincia inferma e bisognosa di cure”, una terra cui non fece mai mancare le sue attenzioni e che amò profondamente
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DI ALFIO CAVOLI
CASTIGLIONE DELLA PESCAIA, 20 dicembre 1989 – Per una serie di motivi, non siamo mai stati teneri con le teste coronate; ma quel signore di marmo che, a Grosseto, dal primo di maggio 1846 se ne sta dritto in piedi nel bel mezzo di Piazza Dante (un tempo Piazza delle Catene) ha fatto vacillare più volte le nostre ataviche intolleranze per indurci a giudicarlo senza eccessi di severità. E non perché i suoi ritratti d’autore e quel suo celebre soprannome, Canapone, lo propongano come figura degna di qualche simpatia, bensì per certi dati oggettivi che la storia del suo lungo regno, trentacinque anni, sulle terre di Toscana, ci fornisce con decisiva forza di persuasione. Almeno per quanto riguarda la Maremma.
A detta degli storici di professione, egli era un modesto, anzi un modestissimo politico, essendo stato educato da suo padre Ferdinando III di Lorena, più all’amore dei buoni studi che al governo della cosa pubblica. Per cui, anziché occuparsi e preoccuparsi di riforme politiche, si dedicò al miglioramento materiale del Granducato.
La Maremma fu al centro delle sue attenzioni che, alla lunga, divennero quasi ossessive, morbose. All’indomani della sua successione al trono (18 giugno 1824) il ventisettenne Leopoldo II, come a volersi riscattare da un’infanzia e da un’adolescenza trascorse tra le assidue cure della malferma salute, si buttò, anima e corpo nella grande impresa bonificatrice, volta a cancellare la dilagante palude dal panorama opprimente, fetido, mortifero, della pianura grossetana…
Proprio per questo grido disperato che avvertì nel corso delle sue frequenti visite nel territorio grossetano, nella Maremma si affaccendò così febbrilmente da trovarsi spesso in situazioni tali che a qualsiasi sovrano sarebbero sembrate, forse, estranee alla dignità di un regnante.