Pamela Villoresi e quell’amore di una vita intera chiamato Argentario

Pamela Villoresi e quell’amore di una vita intera chiamato Argentario

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Molto di più di un semplice buen retiro. L’Argentario per Pamela Villoresi attrice che non ha
bisogno di presentazioni, è un luogo speciale quasi dell’anima. Un luogo nel quale vive molti mesi all’anno, protetta dal calore umano dei tanti amici argentarini che ormai la considerano una di loro, cosa tutt’altro che scontata considerando la naturale diffidenza che contraddistingue gli abitanti di questo stupendo angolo di Toscana

Pamela Villoresi: “Ero molto molto giovane quando ho comprato casa all’Argentario e ammetto di essere stata veramente coccolata da tutti. Il mio primo figlio è nato all’Argentario. Credo sia stato l’ultimo monteargentarino “vero”, nel senso che è nato in casa, come succedeva una volta, e non in ospedale a Orbetello o a Grosseto”

di Dianora Tinti

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In un tiepido pomeriggio autunnale, percorro la strada panoramica che come un anello circonda il promontorio dell’Argentario. Mi fermo ad ammirare il panorama mentre una piccola vela taglia lo spicchio di mare di fronte e due gabbiani si rincorrono liberi nell’aria. Davanti l’isola del Giglio. Quando è chiaro, si possono distinguere addirittura le case del piccolo porto isolano. Osservo con più attenzione la costa. La mano dell’uomo ha trasformato molti aspri declini in verdi e fertili terrazzamenti abitati da viti e ulivi ma, a parte quelli, ogni angolo parla ancora di convegni romantici e incontri segreti di contrabbandieri. È davvero difficile resistere ad una simile malia… Nemmeno Pamela Villoresi, una delle più note attrici italiane di teatro, cinema e televisione, ci è riuscita, tanto da fare dell’Argentario il luogo preferito dove vivere.

Da moltissimi anni lei ha il suo ben retiro in Maremma, all’Argentario. Una scelta oppure un caso?
“La colpa” è di mio marito Cristiano. Come molti romani è sempre stato attratto da quella specie di isola che è l’Argentario, che frequentava fin da piccolo. Io invece, appartenevo a quella parte di Toscana (è nata a Prato, ndr) che non “scendeva” fino in Maremma, al massimo arrivava a Castiglione della Pescaia. Conobbi Cristiano giovanissima, a Istanbul, e decidemmo all’impronta di sposarci, di avere un figlio e di avere una casa nostra a contatto con la natura. Io pensavo più alla campagna, lui insistette: l’Argentario! Mi ricordo che nel nostro giro di perlustrazione del promontorio incontrammo un vecchietto a bordo di un’Ape Piaggio (il “lapino” lo chiamavano) che ci chiese cosa cercavamo. Era sordo come una campana; inteso finalmente che (forse) cercavamo una casa, ci accompagnò a vederne una che sapeva in vendita. Insomma… non era quella, ma una accanto che diventò la nostra.
Gli abitanti dell’Argentario sono molto diversi dai maremmani. Secondo lei in cosa e quali sono in loro gli aspetti che apprezza di più?
Sono isolani. Anche i gigliesi ovviamente lo sono, ma hanno un carattere più aperto e allegro. I santostefanesi, invece, rassomigliano più agli elbani: all’inizio sono piuttosto chiusi e scontrosi. Non hanno un carattere affabile, ecco; ma se ti adottano è per tutta la vita. Credo che la loro diffidenza derivi dalla loro storia, dall’essere stati preda di infinite incursioni militari e piratesche. Molti hanno origini spagnole o campane – basta leggere i cognomi –, altri vi furono confinati o provenivano dalle patrie galere e non potevano muoversi… la malaria completò l’isolamento.
Come è stato il suo inserimento in questa comunità?
Ero molto molto giovane quando ho comprato casa all’Argentario e ammetto di essere stata veramente coccolata da tutti. Il mio primo figlio è nato all’Argentario. Credo sia stato l’ultimo monteargentarino “vero”, nel senso che è nato in casa, come succedeva una volta, e non in ospedale a Orbetello o a Grosseto.
È venuto al mondo con il canto carnatico, una sorta di yoga che proviene dal sud dell’India; solo negli anni ‘70 è stato portato in Europa da un ginecologo francese, Frédérick Leboyer – già famoso per sostenere assiduamente la “nascita senza violenza” – che lo ha riadattato e proposto alle donne in gravidanza come tecnica di autosostegno al travaglio e al parto, al fine di dominare i dolori e le paure delle doglie.
Pensi che non soltanto è nato sul Monte, ma pochi giorni dopo il terribile incendio che devastò il promontorio nel 1981. Dovetti scappare con il pancione e nel nostro terreno intorno casa bruciò quasi tutto. Non appena però ci riallacciarono la corrente, tornai a casa e continuai con il mio canto carnatico per prepararmi al parto.
Quando si sparse la voce della nascita di un bambino, lì in mezzo a tutto quel nero, tutti la interpretarono come un segno si speranza. I contadini e gli amici della zona arrivarono allora portandomi in omaggio piccoli lecci o altri tipi di alberi, tutti da piantare. Fu veramente commovente. Quando arrivammo a segnarlo all’anagrafe si dettero voce: “È arrivato il bimbo di scoglio”.
Ma anche dopo si sono adoperati tutti per farmi sentire ben accolta: c’era chi al mercato mi metteva da parte le ciliegie più buone, chi il latte per il bambino, due contadine del Monte i loro prodotti. Quando avevo i figli piccoli ho trascorso molti mesi all’anno all’Argentario.
Lei ha fatto anche tante cose culturali all’Argentario…
Sì, per anni mi sono impegnata veramente tanto per animarlo e, devo dire, che sono state fatte cose pregevoli che si sono radicate. Per tutti – abitanti e ospiti – erano diventate appuntamenti irrinunciabili. Poi, purtroppo, negli ultimi anni è stato tutto cancellato… peccato! In poco tempo si possono vanificare le fatiche di 20 anni.
Lei è un personaggio noto nel mondo cinematografico e teatrale, ma ha lavorato anche molto in televisione. Il teatro è rimasto sempre il primo amore?
Il teatro è stata la mia vita. Pensi che rimanevo fuori casa anche 200/250 giorni all’anno e, creda, è molto. Inoltre il teatro è in un momento non troppo favorevole. Non è in crisi di per sé, ma come tutte le cose che dipendono dalle istituzioni pubbliche, è sottovalutato e amministrato male: non ci sono né i fondi adeguati né la competenza e neppure i tempi per fare cose fatte bene… La classe politica non ha capito che il nostro patrimonio artistico e culturale è il NOSTRO ORO NERO. Quindi ho deciso di non dedicarmi più esclusivamente al teatro, ma anche alla televisione e al cinema, che ho un po’ riscoperto grazie a Sorrentino. Ora, recitare davanti ad una macchina da presa mi piace e mi sento a mio agio: ammetto che non mi ci ero mai divertita così.
L’ultimo anno, infatti, ho fatto meno teatro e più fiction e film. Questo mi ha permesso di avere più di tempo per me e sono riuscita a venire anche più spesso all’Argentario: per me è fondamentale starci più tempo possibile.
Ha iniziato a lavorare che era veramente molto molto giovane. Pensa che la recitazione e il teatro le abbia tolto qualcosa della sua giovinezza?
Sì, però in compenso mi ha dato talmente tanto che il conto è in pari. Certo, quando da ragazzina facevo le recite per le scuole e vedevo i miei compagni che andavano ancora spensierati in giro in motorino mi si stringeva il cuore: io avevo già il pensiero di mantenermi da sola e far quadrare i conti. Andavo in pensioncine squallide, fredde, e non potevo certo mangiare due volte al giorno al ristorante, quando eravamo in tournèe: perciò panini e frutta, frutta e panini. L’ho pagata certamente molto cara questa scelta, la mia adolescenza l’ha divorata il teatro, ma mi ha restituito un’eterna giovinezza.
A diciotto anni ha incontrato il grande Giorgio Strehler. Che ricordo ha di lui?
Lui per me è stato il maestro in assoluto, il mio padre teatrale. Devo a lui quello che so fare come attrice e interprete. Grazie a lui ho fatto tournée straordinarie a Parigi, Mosca, Berlino, Barcellona, Madrid, insomma, nei teatri più belli del mondo. Certo è che, dopo la sua morte, ho dovuto un po’ adeguarmi… però ho avuto così tanto che non posso certamente lamentarmi. Dopo non è stato più possibile arrivare a quei livelli artistici, a quei trionfi. Ma il lavoro è lavoro e mi sono rimboccata le maniche. Ho fatto comunque belle cose, con colleghi e artisti di valore. E non sono mancate belle soddisfazioni.
Poco fa lei ha accennato a Sorrentino. Come è stato lavorare con lui ne “La grande bellezza” e vincere addirittura un Oscar?
Veramente un grande maestro, magico; non gli sfugge niente. E poi, naturalmente, l’oscar è stato una soddisfazione grandissima.
Ve l’aspettavate?
Onestamente no e le spiego perché: il film ha debuttato a Cannes dove non ha vinto niente e anche la critica è stata molto tiepida. Dopodiché ha vinto premio tutti in tutti i festival dove ha partecipato. E siamo stati presi in contropiede anche dal successo dal botteghino: travolgente. E poi… l’Oscar: tombola.
Nella sua carriera ha lavorato con i più grandi nomi del teatro e del cinema come Vittorio Gassman e Nino Manfredi, tanto per citarne due. Cosa le hanno lasciato?
Vittorio si spendeva, si spremeva molto in palcoscenico, aveva un carisma assoluto: stare dietro le quinte quando lui recitava era un viaggio… si imparava moltissimo. Di contro era una persona con un grande ego. C’era lui e poi tutti gli altri a ruota. Ebbi alcune difficoltà, provenendo soprattutto dal teatro Strehleriano di scavo, di ricerca psicologica; lui aveva un altro approccio ai testi. Difficoltà, poi, superate: servono anche quelle per crescere. A Nino Manfredi devo tantissimo: si è rapportato a me con un affetto e una generosità indescrivibili. La mia verve comica la devo a lui di cui conservo un ricordo bellissimo, sia come attore che come uomo. Sono ancora molto legata a sua moglie Erminia, una donna straordinaria.
So che lei ama molto anche la poesia. Che differenza c’è secondo lei tra la poesia e la prosa?
La poesia sicuramente aiuta a vivere meglio la vita. Fa vedere il lato poetico della vita. La poesia è un trait d’union fra la parola e la musica. Le parole devono essere messe bene e ben scelte, e dense di significato, sintetiche, nel raccontare una storia in poche righe. Un concentrato. Un fiore di loto che affonda le radici nel magma umano.
È quindi è difficile scriverle ed anche interpretarle bene, perché non è facile arrivare al significato più profondo di ogni parola e restituirlo immediato e chiaro a chi ci ascolta.
A me piace molto fare i recital di poesia. Amo farli con la musica che aiuta a creare l’atmosfera giusta, a spiccare il volo, ad aprire i significati più profondi in pochi istanti, per lasciare “riposare” la mente tra una lirica e l’altra.
Lei, dopo un lungo matrimonio allietato dalla nascita di tre figli, è purtroppo rimasta vedova. Cosa pensa dell’amore?
L’amore sta diventando complicato e chiede prezzi sempre più alti, soprattutto a noi donne. Per quelle in carriera, ad esempio, è dura perché i compagni, anche quelli più illuminati, faticano ad accettare il ruolo di “principi consorti”. Spesso il prezzo da pagare per un amore è la rinuncia al nostro ruolo sociale, oppure un’ansia continua. Io penso che alla mia età, con gli affetti familiari, l’indipendenza economica, tanti interessi e amici meravigliosi – anche all’Argentario – una storia amorosa o è un valore aggiunto, oppure se ne può fare a meno; meglio sostituirla con amicizie “birbone”: gli amanti arrivano sbarbati e profumati, e lasciano i problemi a casa loro. Fantastico.
Nel recital scritto e diretto da Maria Letizia Compatangelo per i 140 anni della nascita di Eleonora Duse, lei interpreta la divina, una apripista per tutte noi donne. Lei ci si riconosce in qualche modo?
Sapevo molto poco di lei. Una volta sono stata ad Asolo, dove è sepolta. (Premetto che non amo i cimiteri, mio marito e mia madre sono sepolti all’Argentario ma io non ci vado quasi mai. Con questo non voglio dire che il culto dei morti non sia importante per me, anzi… ma penso che le persone che abbiamo amato rimangano nel cuore e non in un tumulo). Comunque quando andai dalla Duse, di fronte alla sua tomba sentii un profondo senso di gratitudine. Noi donne, e in particolare noi attrici, le dobbiamo molto, è stata una innovatrice, ha pagato la sua libertà e la sua carriera con il sangue. Pensi che lei fu messa incinta da un giornalista, tale Cafiero di Napoli, che la abbandonò non appena seppe che aspettava un bambino. Allora le ragazze madri venivano frustate in piazza e tradotte in carcere. Partorì il bimbo in gran segreto a Marina di Pisa e lo dette a ad una balia impegnandosi a mantenerlo per potergli assicurare una vita serena, invece morì dopo pochi mesi, non si sa il motivo. La giovinezza di Eleonora finì quel giorno. Fu anche una delle prime imprenditrici teatrali, produceva e dirigeva gli spettacoli, pagava i colleghi anche quando venivano annullati a causa della sua salute cagionevole (morì di polmonite, ndr), perché conosceva le condizioni miserevoli degli artisti. I teatri poi sono luoghi freddissimi, pieni zeppi di spifferi. Io stessa i primi tempi ho patito veramente tanto freddo. E poi fu una donna coltissima: fece conoscere D’Annunzio e Ibsen in Italia e nel mondo.
Sapeva che il Vate la tradiva, ma diceva sempre che per andare avanti lei aveva bisogno di un sogno.
Un’ultima domanda: ha mai pensato dove vorrebbe che fosse sepolta, fra moltissimi anni?
Sì ci ho pensato e la ringrazio per la domanda. Vorrei essere cremata e che le mie ceneri fossero sparse metà sul Monte e metà nell’azzurro mare dell’Argentario.

ARTICOLO PUBBLICATO NEL NR. DI DICEMBRE 2017 DI MAREMMA MAGAZINE