Una specialità tutta da gustare a base di farina e acqua, ma non solo. È il ciaffagnone tipico prodotto di Manciano che nel rispetto della ricetta tradizionale può essere degustato e apprezzato in un solo modo: va cotto lì per lì, su una padellina unta con lardo, deve essere sottilissimo, va condito con cacio e ripiegato in quattro e subito mangiato accompagnato da un buon bicchiere di vino rosso Una chicca per buongustai. Provare per credere!
Un piatto tipico e tradizionale, che merita anche uno specifico riconoscimento e l’inserimento nell’elenco delle PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) della Regione Toscana, e in questo senso, sulla base di un’approfondita ed inedita ricerca documentaria, storica e culturale, si è mossa finalmente l’Amministrazione comunale di Manciano, avviando l’iter necessario.
di Lucio Niccolai
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Il ciaffagnone è un prodotto alimentare tipico e tradizionale di Manciano, generalmente poco conosciuto, nella sua specificità, fuori dal perimetro paesano.
Tutte le descrizioni che più volte e più autori hanno tentato o provato ad abbozzare in guide gastronomiche, libri e articoli (più recentemente anche in siti dedicati) non solo sono molto lontane dal rappresentare realisticamente questo prodotto peculiare mancianese, ma neppure riescono a fornirne un’idea verosimile: non ne colgono i caratteri specifici, confondendolo con altre tipologie di prodotti alimentari, in virtù della forma in cui viene presentato, o dei supposti componenti dell’impasto.
Il risultato di queste descrizioni sbagliate è la diffusa confusione sul prodotto, il suo uso e le forme del suo consumo. Prova ne sia l’esternazione dell’ignaro lettore del sito Cibo di strada che, schifato, si chiede: «ma se po’ magnà [sic] na [sic] crepes cor pecorino?…ma dai…!!» (Sergio, 4/12/14). Detta così, in effetti, farebbe schifo anche a me. Ma io non mangio crepès, né, tanto meno, le mangerei con la nutella.
Forse, per definire il ciaffagnone mancianese bisognerebbe dire ciò che il ciaffagnone non è, ciò a cui non assomiglia, sottolinearne le specificità e le differenze rispetto ad altri prodotti alimentari (a volte lontani parenti) che, solo apparentemente e ad uno sguardo (o un assaggio) superficiale, potrebbero apparire simili (caso mai nella forma piuttosto che nel sapore). Ad esempio: il ciaffagnone non è una crèpes (anche se a prima vista potrebbe assomigliargli: diversi sono gli impasti e le modalità di cottura); non è neppure una frittata (anche se l’impasto contiene uova e si cuoce in una padella come una frittata, ma con un uovo si fanno fino a dieci ciaffagnoni!); e così via. Questioni nominaliste, si penserà. Ma non solo di parole e definizioni più o meno precise si tratta. Perché queste, a ben vedere, evocano, o possono evocare, le forme e la storia dell’uso di un prodotto alimentare, la sua funzione culturale e sociale.
Un tentativo di definizione
Ma intanto, per tutti coloro che non sanno cosa sia il ciaffagnone, sarà necessario tentarne una definizione. Come suggerisce Paolo Maccari, architetto e cultore di storia locale, in un recente articolo, il ciaffagnone è uno di quegli innumerevoli prodotti alimentari a base di farina e acqua, sostitutivi del pane o delle paste alimentari, caratterizzati da una rapidissima cottura che li rende immediatamente disponibili per l’uso ed il consumo, di norma accompagnati da qualche condimento che – naturalmente – varia a seconda dei luoghi e in funzione delle disponibilità. Qualche giorno fa ho visitato una mostra a Firenze (30.000 anni fa la prima farina) dedicata alle ricerche archeologiche nell’area del Bilancino: molto prima che si diffondesse la coltura del grano, le popolazioni locali seccavano gli amidacei contenuti nelle tife di palude e – una volta macinati – li usavano come farina che, impastata con l’acqua, veniva manipolata in forma di sfogliatine o schiaccine che venivano cotte in pochi minuti su semplici pietre poste sui focolari. Il ciaffagnone mancianese, come queste schiacciatine del Bilancino, fa parte di quella infinita serie di prodotti alimentari – universalmente diffusi e conosciuti – di tradizione antica o antichissima, alla quale appartengono anche i più noti testaroli, azime, necci, migliecci, cecine, piadine e così via (le farine utilizzate mutano a seconda dei contesti geografici, storici e ambientali dei luoghi di uso e consumo: dai cereali, ai legumi, alle castagne ecc.).
Il ciaffagnone, però, si differenzia dagli altri prodotti ricordati, perché nell’impasto, oltre alla farina e all’acqua, si aggiungono anche delle uova, in una proporzione più o meno equilibrata tra i vari componenti, fino a formare un impasto liquido, leggero, della densità del latte.
Un po’ di storia
In assenza di documentazioni certe sulle origini del ciaffagnone, non è mancato chi abbia pensato opportuno inventare e diffondere una leggenda che – per contesti storici e ambientazioni – appare quanto mai improbabile, ma che per curiosità è utile riferire. Una donna mancianese – non si sa come e perché, visto che Manciano, ancora, non faceva parte dello stato mediceo – si sarebbe trovata a servire alla corte di Francia alla reggia di Caterina dei Medici e avrebbe fatto assaggiare ai signori lì radunati i tipici ciaffagnoni mancianesi! I cuochi francesi avrebbero subito imparato la lezione e creato le crepès. In realtà, leggende relative all’introduzione nella cucina francese di ricette toscane (facilmente rintracciabili nei ricettari medievali) ad opera di Caterina, (dall’anatra all’arancia, alla besciamella, dalla zuppa di cipolle – quest’ultime rigidamente di Certaldo – alle pezzette della nonna) sono ampiamente diffuse in tutta la regione. In particolare le pezzette della nonna, piatto tradizionale diffuso nelle campagne fiorentine, ricorda, nella tipica ripiegatura in quattro, il ciaffagnone ma, come impasto, è simile alle crepès, mentre il ripieno a base di ricotta (condimento) ricorda piuttosto il tortello maremmano. Di fatto dunque, la finta leggenda, che vorrebbe dimostrare il primato del ciaffagnone, di fatto rischia di avvalorare una non richiesta né utile derivazione da una tradizione alimentare fiorentina!
Non è escluso, invece, che prodotti alimentari simili per impasto, forma e consumo, si diffondessero lungo le strade delle dogane e gli itinerari della transumanza, dal Mugello, dal Casentino (a San Casciano dei Bagni c’è una sagra del Ciaffagnone: è un caso di omonimia, per un prodotto alimentare decisamente diverso da quello mancianese) e dall’alto Lazio (le fregnacce di Acquapendente sono simili al ciaffagnone), senza nulla togliere alla specificità dei prodotti diffusi localmente, sicuramente espressione delle necessità alimentari e delle peculiari forme e modalità di produzione e consumo di ogni comunità e delle sue condizioni economiche e sociali.
Il ciaffagnone mancianese – sia per la rapidità di preparazione e cottura che per il condimento esclusivo di cacio pecorino stagionato – sembrerebbe dunque rimandare alla cultura della transumanza e alla secolare pratica delle migrazioni stagionali che, per questo territorio, hanno avuto, nel corso del tempo, una rilevante incidenza: si consideri che ancora nel 1861 (dopo l’abolizione delle servitù di pascolo e delle dogane) circa un terzo della popolazione del comune (1300 su 4300) era rappresentata da “avventizi”, cioè da popolazione stagionale che si trasferiva da settembre a maggio in Maremma con le proprie greggi. D’altra parte, a ben guardare, sono molti gli elementi alimentari (dall’acquacotta al buglione d’agnello), e non solo (si pensi ad esempio alla ruzzola, originariamente giocata con una forma di cacio stagionato), ancora profondamente radicati nelle tradizioni locali che rimandano alla transumanza. Tra tutte, potremmo ricordare la grande qualità della produzione dei formaggi, sia freschi (già Artusi riteneva eccellente la ricotta maremmana) che stagionati di cui Manciano e la Maremma vantano una riconosciuta professionalità ed esperienza.
La degustazione
In un articolo pubblicato proprio 50 anni fa, Alfio Cavoli descriveva, con la sua maestria, il piacere della degustazione di quello che, a ragione, considerava il piatto tipico per eccellenza del suo paese: «Il ciaffagnone ben riuscito dev’essere […] quasi trasparente. […] Per quanto riguarda la cottura, il ciaffagnone vuole preferibilmente la fiamma. Prima di versare la pasta nella padella, se ne deve ungere il fondo con […] lardo […], allo scopo d’evitare che il ciaffagnone vi aderisca. Data la sua particolare sottigliezza, il ciaffagnone si “rivolterà” dopo pochi istanti. […] Man mano che i ciaffagnoni escono dalla padella, vengono generosamente cosparsi in tutta la loro modesta superficie di ottimo pecorino, con tassativa esclusione di altri caci. Fra il pecorino maremmano e il ciaffagnone sussiste un patto d’alleanza così indissolubile che non appena venisse rotto si provocherebbe il più acceso risentimento delle papille gustative.»
Inoltre, scrive ancora Alfio Cavoli, «non si potrebbe concepire un pranzo a base di ciaffagnoni in assenza di ottimo vino delle nostre fertili colline: sarebbe un’assenza ingiustificata e degna di essere annoverata fra le più grandi sventure che affliggono le persone di gusto e di appetito. Poiché il ciaffagnone desidera il buon vino come il buio desidera la luce. Anche questa fratellanza del ciaffagnone con Bacco non potrebbe essere turbata senza provocare il più immediato risentimento del palato e la più grande desolazione dello stomaco. Mangiare i ciaffagnoni senza vino sarebbe come mettersi sotto il naso, con la pretesa di aspirarne il profumo, un fiore di plastica. Non so se ho reso l’idea…».
Si possono dunque rintracciare alcuni degli elementi tipici che caratterizzano e differenziano il ciaffagnone da ogni altro e qualsiasi prodotto simile: l’impasto, lo spessore sottilissimo, il condimento esclusivo di cacio pecorino stagionato, l’abbinamento con il vino. Non che i ciaffagnoni non si possano consumare in altre maniere (ottimi, ad esempio, in forma di cannelloni, con ripieno di ricotta e spinaci, oppure presentati con una striatura di miele), ma il vero ciaffagnone mancianese è, e non può che essere, quello così passionalmente descritto da Alfio!
Un piatto tipico, dunque, e tradizionale, che merita anche uno specifico riconoscimento e l’inserimento nell’elenco delle PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) della Regione Toscana, e in questo senso, sulla base di un’approfondita ed inedita ricerca documentaria, storica e culturale, si è mossa finalmente l’Amministrazione comunale di Manciano, avviando l’iter necessario.
Un piccolo passo, se si vuole, ma necessario e opportuno per difendere la specificità del prodotto e avviare una fase più consapevole di valorizzazione di un cibo tradizionale che già ora è presentato con successo e ampiamente apprezzato in occasione delle più importanti manifestazioni culturali e gastronomiche del paese, da Vivamus alla Festa delle cantine. Ma attenzione, per degustarlo davvero bisogna seguire le precise indicazioni di Alfio, che sono poi quelle che vi darebbe ogni mancianese: il ciaffagnone deve essere cotto lì per lì, su una padellina unta con lardo, essere sottilissimo, condito con cacio e ripiegato in quattro e subito mangiato accompagnato da un buon bicchiere di vino rosso. Diffidate dalle imitazioni e da tutto ciò che non sia espressamente e precisamente questo.