Se n’è andato a marzo alla veneranda età di 107 anni e a pochi mesi di distanza dalla moglie Pupa Barabesi, centenaria anche lei, il barone e fotografo Felice Andreis. Un grande personaggio di origini piemontesi che aveva eletto la Maremma come patria adottiva in cui vivere nella sua tenuta, vicino Giuncarico
Di lui rimarranno ad imperitura memoria oltre 15.000 splendidi scatti e 4.000 diapositive che hanno fissato sui supporti più disparati in linea con l’evoluzione della fotografia le immagini di una vita durata oltre un secolo
di Carlo Bonazza
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Una sera di fine anni ’90 ero per la prima volta a cena con mia moglie dai coniugi Andreis nella loro casa sotto Giuncarico in località Poggio Cavallino. Una fattoria vecchia, ma non antica, semplice e bella appoggiata sulla sommità di un piccolo poggio e con ancora molti segni del passato di lavoro agricolo, con il grande salotto che probabilmente era stato una stalla.
Eravamo in sei: noi, gli Andreis e un’altra coppia di amici loro. Eravamo lì per vedere una serie di diapositive a colori degli anni ‘50 e ’60, immagini che conoscevo appena. Nessuna persona di servizio in casa, apparecchiatura semplice e la signora Pupa che serviva in deliziosi piatti vecchi e sbeccati, girando lenta e impeccabile intorno al tavolo. L’acqua era della fonte e il vino in una caraffa di vetro con sottili ghirigori.
Ricordo la nostra conversazione un po’ timorosa all’inizio, resa poi inaspettatamente semplice dal garbo disinvolto dei nostri amici.
Arrivarono le diapositive, ovviamente tante, in un’allegra confusione di luoghi, date e situazioni. Quasi tutte trattavano di viaggi in paesi lontani e ambientazioni sontuose: mi sembra di ricordare la corte del re del Marocco, l’ambasciata inglese di New Delhi, foto prese da un piccolo aereo in volo sull’Himalaya, i racconti di un viaggio in canoa sul lago Vittoria. Cose del genere, insomma.
Quindici anni dopo, nell’introduzione del nostro libro dedicato all’opera di Felice Andreis, avrei voluto paragonare l’autore al Tintin dei fumetti, per la vita avventurosa e i viaggi intrepidi. Eroe acculturato, Tintin partiva impavido per avventure lontane, viaggiava con mezzi moderni per l’epoca, si fermava in grandi alberghi, usava i mezzi di trasporto più moderni, conosceva la storia e la geografia dei suoi anni. Con il tempo nelle storie disegnate le città, le auto, gli aerei, le navi diventavano più moderni, ma lui no, nelle vignette non cambiava mai età o abbigliamento, vero eterno adolescente.
Andreis però si schermì, disse che no, non era così, non era possibile perché non sapeva neanche chi fosse questo personaggio e alla fine tolsi il riferimento.
Oggi continuo a credere che l’immagine di Tintin in fondo lo rappresentasse bene. Con suo il basco in testa e i calzoni alla zuava gli somigliava persino fisicamente. O forse era Tintin che somigliava a lui.
Era inevitabile, lo sapevamo ma ora è successo. I nonnini se ne sono andati davvero. Quasi insieme, ad un mese di distanza l’uno dall’altra, dopo una vita accanto. Con la grande discrezione Felice ha raggiunto la sua Pupa. Non erano solo il ricordo e la testimonianza del passato, erano loro stessi il passato, ma incredibilmente erano ancora fra noi.
Lui ha sempre fotografato nella sua lunga vita. Ha raccolto le immagini in modo semplice e ordinato, da vero fotoamatore: album con diverse stampe per pagina con annotazioni autografe in bella scrittura stilografica di luoghi, date e persone, negativi e lastre in scatole e grandi stampe incorniciate.
Ha documentato il suo lavoro di ingegnere civile, le vicende della sua famiglia, i tanti viaggi fatti, le escursioni in montagna, la caccia, gli animali, i volti degli amici e parenti, i paesaggi dei luoghi dove ha vissuto o dove è stato in visita.
Da quando il padre gli regalò all’età di nove anni una semplice fotocamera Kodak non ha mai smesso: è passato dalle lastre esposte per contatto al sole, alla pellicola in rullo, alle diapositive a colori fino alle immagini digitali e le stampe al computer con cui si è divertito fino a poco tempo fa.
Andreis ha lasciato anche molte immagini di veduta e di paesaggio, liriche e ordinate, silenziose e limpide. Davanti alla vastità degli scenari, spesso c’è un amico, la moglie, un compagno di viaggio in un angolo della foto, affacciato a guardare.
Nei paesaggi questa presenza diventa una vera cifra stilistica, ripetuta quasi ossessivamente. Sembra indicare un modo di porsi e suggerire un rapporto personale con il luogo in cui momentaneamente è entrato. C’è un senso di piccolezza dell’uomo rispetto al mondo, uno stupore sentimentale, una misura romantica della grandezza della natura.
Anche le altre immagini hanno sempre un piglio alto, epico e una forte intenzione estetica. Spaziano da visioni moderniste tipiche della pittura e delle fotografiche europee del novecento, quando l’autore si rivolge agli oggetti e ai dettagli architettonici, ma ci sono anche elementi di un pittorialismo più “salonista” nelle vedute che inviava ai concorsi dei fotoclub americani, stampate impeccabilmente e corredate da titoli aulici.
La composizione e l’inquadratura sono elementi che Andreis ha sempre gestito con padronanza sobria e cosciente. Le geometrie sono nette, i tagli decisi, giocava con le ombre. Usava la luce naturale con capacità ed eclettismo. Non arretrava di fronte a controluce estremi, bianchi abbaglianti, si lasciava andare in ombre profonde e silhouette nere, ma sapeva accarezzare i volti con luce ariosa e morbida.
Dietro la fotocamera Andreis guardava sereno, sapeva avvicinarsi ai soggetti con la disinvoltura e il garbo con cui era abituato a muoversi nella vita. Le sue immagini non sono mai rubate o imposte. Non si faceva scudo della macchina, non si rendeva invisibile, si avvicinava con passo felpato, seduceva i suoi soggetti con grazia.
Andreis ha cercato di esplorare il bello nelle cose e nelle persone.
È la sensazione più forte che rimane al termine di un lungo lavoro fatto insieme, un percorso fatto con grande piacere ed affetto.
Da fotografo a fotografo.