di Lucio Niccolai
A quarant’anni di distanza dall’esibizione del Coro degli Etruschi alla Flog di Firenze in occasione di un Convegno sulle tradizioni popolari e la ricerca etnomusicale organizzato nel novembre 1975 da Caterina Bueno, si è svolto recentemente a Grosseto il Laboratorio-Festival della musica popolare promosso dall’Archivio delle tradizioni popolari. Un’occasione unica per fare il punto sullo stato dell’arte della musica popolare in Maremma
La musica popolare, così come il cibo tipico, i grani e i vitigni antichi, le leggende, le forme del paesaggio tradizionale e i centri storici ben conservati, rappresenta una parte essenziale dell’identità di questo territorio. Da studiare e salvaguardare
****
Quarant’anni fa, il 25 novembre del 1975 il Coro degli Etruschi si esibì alla Flog (Fondazione lavoratori Officine Galileo) di Firenze in occasione di un Convegno sulle tradizioni popolari e la ricerca etnomusicale organizzato da Caterina Bueno. Fu forse quella – dopo che già Caterina Bueno aveva inciso nei suoi primi dischi alcuni brani di Morbello e stornelli provenienti dalla tradizione orale maremmana e amiatina – una delle prime importanti occasioni in cui il repertorio popolare di questa terra veniva presentato ad un pubblico più vasto e riceveva un meritato riconoscimento culturale. Un anniversario importante per riflettere sullo stato attuale della riproposta della musica popolare che, così come il cibo tipico, i grani e i vitigni antichi, le leggende, le forme del paesaggio tradizionale e i centri storici ben conservati, rappresenta una parte essenziale dell’identità di questo territorio.
Il tempo della ricerca, della riscoperta, della riproposizione
La riscoperta e il recupero delle tradizioni popolari in Maremma – non casualmente – avevano preso avvio negli anni delle grandi trasformazioni causate dalla Riforma agraria e dal “boom” economico che determinarono profondi sconvolgimenti sociali e territoriali, all’interno dei quali, come scriveva negli anni ’50 Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia: «Anche le antiche tradizioni svaniscono; il folclore maremmano, con i suoi canti popolari, il rituale della caccia e le zuppe di carne, pezzi d’agnello o di cinghiale conditi con spezie e versati nel pane a fette, non si ritrova più in pianura. I suoi residui resistono nelle alture, destinati a non lunga vita. I poveri villaggi alpestri che ne sono depositari, si vanno, infatti, spopolando […] I montanari scendono nella pianura della Riforma agraria e delle bonifiche, dove le vecchie costumanze sono dissolte.»
Fu allora che, sulla scorta di esperienze come quelle di John e Alan Lomax negli Stati Uniti, di Ernesto De Martino, Roberto Leydi, Gianni Bosio ed altri in Italia – crebbe, con la consapevolezza di recuperare il patrimonio tradizionale, l’interesse per le manifestazioni più autentiche e spontanee della cultura delle classi subalterne. La memoria degli usi legati al lavoro e alla calendarietà della vita quotidiana non era ancora del tutto scomparsa, né cancellata dal “folklore” dell’appena trascorso regime – che l’aveva utilizzato come arma di propaganda e di costruzione del consenso – o dai processi di modernizzazione in atto (si pensi all’importanza che nel dopoguerra la radio prima e la televisione poi hanno avuto nell’affermazione di un nuovo immaginario nazional-popolare che ha preso rapidamente il posto di quello che prima era espressione di braccianti agricoli e minatori, pastori, mezzadri e badilanti).
Fu in questo contesto che Alan Lomax, nel corso di una ricerca condotta in Italia con la collaborazione di Diego Carpitella tra il 1954 e il 1955, registrò e documentò vario materiale canoro proveniente anche dal nostro territorio. Luciano Bianciardi, da parte sua, nel 1960 pubblicò un articolo dedicato all’Amiata in «Le vie d’Italia» dove, tra l’altro, si parlava dei Cardellini di Castel del Piano. Nel 1965 toccava a Caterina Bueno incidere alcuni dei brani recuperati da Morbello Vergari, stornelli imparati da minatori amiatini, testi anonimi di rara bellezza e poesia salvati dall’oblio dai ricercatori ottocenteschi quali Stanislao Bianciardi, Niccolò Tommaseo e Giuseppe Tigri. Altri ricercatori che hanno prestato la loro attenzione al repertorio amiatino e maremmano sono stati poi interpreti di eccezione quali Dodi Moscati e Leoncarlo Settimelli. Tutte esperienze che ebbero il merito di far conoscere ed apprezzare in ambiti meno locali il repertorio popolare maremmano-amiatino, mentre i primi ricercatori e/o ripropositori maremmani – Morbello Vergari (poi con il Coro degli Etruschi) e i Cardellini di Castel del Piano – operavano recuperando una memoria che era ancora viva: testi che, rispetto all’evoluzione della società, sembravano parlare di un passato remoto destinato ad essere cancellato irreversibilmente; melodie e modalità esecutive (si pensi al bèi, alla fisarmonica, alle nacchere) che apparivano ormai vecchie e anacronistiche rispetto alle nuove correnti musicali degli anni Sessanta, però accompagnate anche da creativi e significativi esempi di recupero e riutilizzazione dei repertori tradizionali – si pensi a Bob Dylan – che dimostravano quanto la musica popolare potesse essere ancora attuale.
Nel 1975, il fondamentale volume, Canti popolari in Maremma di Morbello Vergari e Corrado Barontini, edito da Il Paese reale, opportunamente corredato dalle scritture musicali di Finisio Manfucci, fissava e definiva il repertorio maremmano allora conosciuto, diventando rapidamente e per lungo tempo un punto di riferimento ineludibile per chiunque si interessasse di musica popolare nel territorio e per ogni gruppo che intendesse affrontare un’azione di riproposizione.
La consapevolezza del repertorio, il rapporto con la storia e la cultura del territorio
La musica popolare sembra oggi godere di una rinnovata fortuna, come dimostra la fioritura di nuovi gruppi e il moltiplicarsi delle occasioni di incontro e di rappresentazione nei contesti festivi.
La nascita di nuove formazioni di interpreti del repertorio tradizionale e il moltiplicarsi di esperienze canore e musicali rappresentano un fatto positivo nella misura in cui esprimono una nuova e, a volte, più diffusa sensibilità in direzione di un recupero delle forme, dei modi e delle espressioni della cultura popolare, un significativo antidoto alle logiche della globalizzazione e di omologazione culturale dei territori. Interessante anche da un punto di vista fenomenologico: i gruppi recenti assumono sempre più spesso caratteristiche di “massa” tanto da farle assomigliare più a tribù, con tanto di bambini al seguito, che a cori tradizionali, forse a voler rappresentare il forte spirito identitario che li connota e del quale il canto non è che una – ma evidentemente non l’unica – forma di espressione.
I brani proposti però – malgrado cambino i gruppi che li interpretano e la loro mimica e gestualità – sono, sia nella melodia sia nei testi di riferimento, più o meno sempre uguali come se, alla crescita di un bisogno reinterpretativo e una più ampia e diffusa condivisione del repertorio tradizionale, non si fosse affiancata una maggiore consapevolezza culturale relativa al rapporto tra canzone popolare e contesto di produzione. Fondamentale, dunque, per gli esecutori, dimostrare una chiara consapevolezza del repertorio che viene proposto: qual è l’origine del pezzo che si ripropone? Quando e come è stato ritrovato? Di chi è la versione che si presenta? Quale era il contesto in cui veniva eseguito? Per quale ragione è stato scelto proprio quel pezzo e/o quella versione? Se poi la canzone proposta è d’autore o produzione autonoma del gruppo, va dichiarato apertamente, e anche il contesto e le motivazioni di fondo da cui la canzone stessa è nata, anche per evitare pericolose commistioni e mescolanze.
D’altra parte, le profonde trasformazioni economiche e sociali di questi anni hanno determinato l’impossibilità materiale di un lavoro di ricerca e di verifica diretta sul campo del repertorio popolare, in quanto i presupposti stessi di una ricerca di questo tipo sono venuti a mancare con la scomparsa dei testimoni e dei protagonisti della società contadina e operaia del passato. Eppure credo che ci sarebbe molto ancora da ricercare e capire: partendo dalle radici, analizzando le fonti che i ricercatori ottocenteschi e novecenteschi hanno raccolto e ci hanno consegnato, ascoltando le registrazioni più vecchie, interrogandosi sulle origini dei pezzi, le occasioni in cui venivano utilizzati, le modalità esecutive. Come ad esempio ha dimostrato Francesca Breschi con un suo interessante e stimolante studio sulle origini della melodia di quello che è forse il nostro canto tradizionale più conosciuto ed eseguito, Maremma amara, completato dalla trascrizione, eseguita attraverso un “ascolto accurato”, dell’esecuzione del Coro degli Etruschi nello spettacolo, citato all’inizio, del 1975.
E accanto a questo – come succede in altre realtà – bene vengano anche nuove elaborazioni, proposte d’autore, innovazioni capaci di ridare linfa, originalità e attualità al repertorio popolare che così continua a vivere e a modificarsi insieme alla terra di cui è una forma di espressione e rappresentazione.
Ben vengano quindi iniziative come quella recentemente promossa dall’Archivio delle tradizioni popolari di Grosseto del Laboratorio-Festival della musica popolare (peraltro celebrata alla Sala Eden a Grosseto proprio nel giorno del quarantesimo anniversario della partecipazione del Coro degli Etruschi alla manifestazione della Flog con Caterina Bueno). E il fatto che tra gli organizzatori vi sia Corrado Barontini, memoria vivente di tutto il percorso di ricerca e riproposizione della musica popolare che ho rapidamente provato a rievocare, è, di per se stesso, una sicura garanzia.