Sagre, che passione! Ma anche no!

Sagre, che passione! Ma anche no!

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L'EDITORIALE DEL NR. 8 DI OTTOBRE
DI CELESTINO SELLAROLI

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Sagre sì, sagre no! È un dibattito che dura ormai da (troppo) tempo quello che vede opposti, da un lato gli organizzatori di questi eventi, dall’altro i ristoratori e le associazioni di categoria.
In effetti, il tema delle manifestazioni gastronomiche e feste paesane (con somministrazioni di cibi e bevande), che si svolgono durante l’anno in provincia di Grosseto, è serio, perché se da una parte vi è la necessità di tutelare il volontariato ‘vero’ ed attivo, quello solidale ed anche quello volto all’aggregazione sociale (scopo, quest’ultimo, di molte associazioni e polisportive che si autofinanziano proprio con le sagre), dall’altra parte occorre accogliere le richieste legittime degli operatori economici che soprattutto nei periodi più favorevoli della stagione lamentano la concorrenza sleale di queste iniziative.
Insomma è necessario stare attenti a non trasformare le associazioni e polisportive in società commerciali con fini di lucro, ovvero macchine per fare business eludendo le norme.
Contro il proliferare del fenomeno “sagra selvaggia”, strumento troppo spesso utilizzato da soggetti vari per creare fonti di finanziamento, non sempre limpido, a spese dei ristoratori locali, si sono da sempre schierate le associazioni di categoria (Ascom Confcommercio e Confesercenti in testa) che denunciano l’eccessiva presenza di manifestazioni di questo tipo, sfornate praticamente a ciclo continuo. Ne finisce una, ne comincia l’altra, quasi all’infinito, al punto che soprattutto da giugno a settembre se ne contano centinaia e centinaia.
In mezzo c’è la politica che non riesce a trovare il punto di incontro tra le diverse esigenze in campo: quelle di chi vede attraverso questi momenti un mezzo per fare cassa e autofinanziare la propria attività (associazione, squadra di calcio o altro) e quelle di chi invece è costretto a subire una guerra in casa, sul proprio terreno – quello della ristorazione – e per di più nel clou della stagione, ovvero il periodo estivo, dove si registra la massima affluenza turistica in grado di compensare le sofferenze dei mesi più morti.
La materia è complessa perché, come spesso succede in Italia, si sovrappongono diversi livelli normativi: nazionale e regionale, sotto il profilo legislativo, e comunale sotto il profilo regolamentare.
Indubbiamente chi chiede di porre un freno al fenomeno ha ragioni da vendere. Troppe e palesi sono le storture che a volte si celano dietro certi “ristoranti a cielo aperto” che spuntano come funghi in ogni dove. Ormai si è perso il conto del numero di sagre in calendario ogni anno in Maremma, anche perché a regnare è spesso l’estemporaneità: parliamo infatti di appuntamenti che nascono e muoiono in poco tempo, per cui diventa difficile pure una loro quantificazione e catalogazione.
Numero dei giorni spesso spropositato, menù improbabili (non legati alla tradizione e alla tipicità dei prodotti), prezzi alti, regimi fiscali esenti da tassazione e/o agevolati (rispetto al mondo della ristorazione), regolamenti comunali non omogenei (alcune amministrazioni hanno provato ad introdurre regole fissando un numero massimo di giorni, annuale e per singola sagra, altri fanno spallucce e non sembrano interessati), sfruttamento del lavoro minorile (cosa succederebbe se un ristoratore si avvalesse in sala delle prestazioni di un adolescente, magari pure oltre la mezzanotte?), qualità della materia prima, pulizia dei locali atti alla preparazione dei cibi, rispetto dei livelli d’igiene e di sicurezza previsti dalla Legge: sono le principali criticità che i detrattori di questo genere di manifestazioni rivolgono contro chi invece ne fa quasi una bandiera, in nome della necessità di salvaguardare cause, talvolta anche nobili.
È indubbio che sul mondo della ristorazione (attività esercitata tutto l’anno e non solo per pochi giorni) gravano vincoli burocratici, carichi fiscali e previdenziali, rigidità sul fronte del mercato del lavoro che invece non incombono sulle associazioni le quali non pagano imposte, hanno come collaboratori dei volontari, in molti casi non offrono ambienti dignitosi con coperti e stoviglie spesso rudimentali. Perfino la qualità delle preparazioni è, talvolta, discutibile, ma nonostante questo praticano ugualmente prezzi da ristoranti.
E allora, che fare? Qui non si tratta di schierarsi a favore o contro le sagre. Le sagre, quelle con la S maiuscola, servono al sistema economico e sociale locale e per questa semplice ragione non vanno demonizzate. Tuttavia è necessario trovare un giusto equilibrio per evitare che un intero settore, quello della ristorazione (che, aspetto tutt’altro che secondario, dà lavoro a tantissima gente), venga penalizzato dal proliferare del fenomeno. In altri termini è indispensabile una puntuale regolamentazione che affronti la materia bilanciando e tutelando le ragioni e gli interessi di tutti.
L’auspicio è che il futuro codice del commercio regionale (in fase di elaborazione) possa costituire una chiave e uno spartiacque per una disciplina seria della materia.
Ce la faremo? Chissà, l’Italia è il paese delle leggi (si regolamenta tutto), ma anche degli interessi contrapposti, che la politica fa fatica a mediare. E se ad oggi per le sagre non ne siamo ancora venuti a capo… un motivo ci sarà…