Domenico Tiburzi, ovvero il “Re della macchia” e dei briganti: tra leggenda...

Domenico Tiburzi, ovvero il “Re della macchia” e dei briganti: tra leggenda e realtà

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È unanimemente considerato come uno dei più importanti e temibili briganti di Maremma della seconda metà dell’Ottocento. Parliamo di Domenico Tiburzi, detto “Domenichino”, personaggio discusso, per ceti versi leggendario che lega il suo nome ad un’epoca buia, fatta di povertà, miseria, ingiustizie, soprusi, omicidi, vendette…

DI MARTINA GUADALTI

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Il fenomeno del brigantaggio fu uno dei mali endemici della Maremma, assieme alla malaria. Siamo nei primi anni Settanta dell’Ottocento, quando la Maremma, che contava appena 107 mila abitanti nonostante la vastità dei territori, era infestata da bande di briganti. Assieme al viterbese era uno dei territori più desolati e squallidi d’Italia. Era considerata un inferno e terra di punizione. I registri dei comuni traboccavano del termine “illetterato” a testimonianza del fatto che la scuola era ben lontana dal consentire a tutti di imparare quantomeno a leggere e scrivere.
Esisteva poi la piaga della malaria, che assieme ad altre malattie, mieteva vittime a centinaia. La maggior parte degli agricoltori e dei braccianti viveva miseramente: lavorava senza tregua in condizioni disumane, al cospetto di latifondisti spietati e vili. Tenendo conto di questa realtà, si capisce chiaramente lo stato di gravità che la gente doveva vivere, e soprattutto la nascita dei vari Tiburzi e Biagini, come segno e simbolo di protesta selvaggia e brutale della miseria contro le secolari ingiustizie.
L’uomo di cui ci occupiamo in questa sede vive nella più nera indigenza, con la salute precaria, senza un lavoro e costretto a pagare tasse indicibili come quella rinominata “della miseria”, ovvero la tassa sul macinato degli Sessanta dell’Ottocento. È un uomo solo di nome, non di fatto.
Se poi, assieme a questo, si prendono in considerazione fenomeni quali il tacito accordo che i latifondisti stipulavano con i briganti per non incorrere in danni e problemi; il favoreggiamento dei contadini per timore o speranza; l’inefficienza amministrativa che non aveva dato il giusto peso al problema, e non di meno, la stessa morfologia del territorio, comprendente vaste aree isolate e inaccessibili con scarse vie di comunicazione, ecco che si capisce come il fenomeno del brigantaggio abbia preso piede capillarmente nella zona maremmana, e sia stato, in un certo senso, forgiato dalla stessa società. Ma del resto, se la motivazione economico-sociale sta alla base del fenomeno, questa trova alimento nella complessa psicologia individuale contadina, con i suoi impulsi anarchici alla vendetta e alla distruzione.
È proprio partendo da questo, che si cercherà di delineare, tra cronaca e leggenda, la figura di uno dei più importanti e temibili briganti del tempo: Domenico Tiburzi, detto “Domenichino”.

Un personaggio per certi versi scomodo che visse per lunghi anni nella macchia tosco-laziale, certo sporcandosi di numerosi efferati delitti, ma anche cercando di fare del bene alla povera gente, sottraendo ricchezze ai grandi proprietari terrieri dell’epoca (siamo nella seconda metà dell’800), per destinarle ai più poveri…

L’articolo completo è pubblicato sul numero di ottobre 2018 di Maremma Magazine, alle pagine 84-87, in edicola e on line su: www.maxisoft.it/mdm/maremmamagazine/index.php