Cinquant’anni fa l’alluvione a Grosseto…

Cinquant’anni fa l’alluvione a Grosseto…

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L'EDITORIALE DEL NR. DI NOVEMBRE 2016 DEL DIRETTORE CELESTINO SELLAROLI

Cinquant’anni fa l’alluvione a Grosseto…

di Celestino Sellaroli

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4 novembre 1966 / 4 novembre 2016. Sono passati cinquant’anni da quella che è da molti considerata la più grande tragedia mai vissuta da Grosseto, ovvero l’alluvione (cui dedichiamo – e non poteva essere diversamente, considerando il rilievo della ricorrenza – un ampio speciale nelle pagine che seguono).
Dopo un’intensa ondata di maltempo che colpì il Nord e il Centro Italia il fiume Ombrone – la mattina del 4 novembre 1966 – ruppe gli argini in più punti ed allagò completamente la città, isolandola. Nelle zone centrali l’acqua superò i tre metri e mezzo di altezza. In molti furono costretti a rifugiarsi ai piani alti delle abitazioni o addirittura sui tetti. Grosseto si ritrovò improvvisamente in ginocchio, con le tubature delle fogne saltate, senza luce, senza telefono, senza acqua (quella potabile, perché di acqua fangosa in giro ce n’era… fin troppa). Migliaia i senzatetto.
L’alluvione ovviamente non colpì solo il capoluogo, ma anche le campagne circostanti. Numerosi furono i casolari isolati e moltissimi furono gli interventi degli elicotteri per porre in salvo la popolazione.
Quei drammatici momenti, in occasione del 50° anniversario, questo mese, saranno rievocati con una serie di iniziative riunite sotto il cartellone “Ombrone 2016” promosso dalla Prefettura di Grosseto insieme al Comune capoluogo e al Consorzio Bonifica 6 Toscana Sud, con altri partner pubblici e privati, per non disperdere la memoria di quelle terribili giornate affrontate con coraggio e determinazione. Già, coraggio e determinazione, che qui certo non mancano, essendo insiti nel DNA di un popolo che ha da sempre dovuto fare i conti con un ambiente ostile. E infatti, nemmeno in quell’occasione, i grossetani si persero d’animo più del necessario: in fin dei conti per Grosseto e la Maremma si trattava “soltanto” di ingaggiare un’altra guerra contro la natura, l’ennesima, sebbene la più drammatica e la più inaspettata. In quelle ore i cittadini senza clamore, ma con grande fermezza, dettero prova di dignità, eroismo e attaccamento alle proprie radici. Non si demoralizzarono, ma si prodigarono con tutte le loro forze per risollevarsi. Ancora una volta.

Sono passati cinquant’anni esatti, ma per tanti sembra ieri. Non è un compleanno, non è una festa, ma un ricordo drammatico che non abbandona la mente di coloro che l’alluvione del 4 novembre 1966 l’hanno realmente vissuta. Un evento e una data stampati nella memoria collettiva come le targhette poste in alcuni punti delle Mura medicee, che ancora oggi ricordano il livello dell’acqua.
Mentre l’Arno inondava Firenze e gli occhi di tutto il Paese erano fissi sulle opere degli Uffizi, sui volumi della Biblioteca Nazionale e sul Cristo del Cimabue che veniva trascinato attraverso i giardini di Boboli, nel panico e nel silenzio anche il fiume Ombrone invadeva Grosseto.
“L’alluvione per la povera gente”, fu allora definita quella tragedia che mise in ginocchio una provincia: un buttero deceduto, Santi Quadalti, mentre tentava di mettere in salvo le proprie mucche, 1.600 persone senza tetto, 7.500 edifici danneggiati, 3.000 suini persi sui 125.000 ettari di pianura allagata, 2.500 bovini, 5.000 ovini, 100.000 bestie minori, oltre alla perdita di 200.000 quintali di scorte di grano, paglia e foraggio. Una devastazione che si abbatté con improvvisa violenza su un’economia prevalentemente agricola.

Anche all’epoca non mancarono le polemiche. La più pressante, tra le domande che tutti cominciarono a porsi, fu: questa tragedia poteva essere evitata?
Nei giorni precedenti infatti la pioggia aveva flagellato la Maremma, fitta, insistente, e già la sera del 3 novembre il fiume si era riversato in golena. Molti si erano accorti che qualcosa non andava, che la situazione era più grave del solito. Eppure nessuno dette l’allarme, fino al mattino. Quando l’argine ruppe, nella zona del Berrettino, non restò che un ultimo disperato tentativo, così due auto dei carabinieri e quella “mitica” del Pucci percorsero tutta la città, invitando la popolazione a mettersi in salvo e a salire ai piani alti.
Altre contestazioni furono suscitate dalla disparità di trattamento, da parte dei mezzi di comunicazione, delle due alluvioni che avevano colpito contemporaneamente Grosseto e Firenze, divenute loro malgrado oggetti del contendere. In una lunga lettera intitolata “Il lutto di Grosseto non si addice alla tv” e pubblicata da “Il Telegrafo”, Beppe Bottai inveiva contro la legge del più forte che vige anche nelle sciagure, e in questo caso Firenze, con i suoi capolavori famosi nel mondo, fece indubbiamente la parte dell’asso pigliatutto: microfoni e telecamere puntati e l’attenzione del mondo per il disastro provocato dall’Arno, mentre il sindaco di Grosseto doveva accontentarsi di “due generosissimi minuti” per spiegare il dramma della sua città… Il rammarico fu forte, come la rabbia: “Forse, l’economia generale dell’Italia sta mutando volto… se le preoccupazioni di un orafo che ha perso il negozio sono così amplificate dai teleschermi dalle mille eco, mentre la disperazione di centinaia di coloni maremmani che, in una notte sola, hanno perso casa, stalla, granaio (il che significa aver perduto la speranza stessa nella vita) non meritano un solo cenno, una sola attenzione, un misero attimo di solidarietà”.
Che dire? Per come si è evoluta la società e l’economia in questi ultimi cinquant’anni, Bottai aveva colto nel segno: il mondo, già da allora, era proprio cambiato!

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